Ti amo da morire… quando le carezze fanno male

“Ti amo da morire… quando le carezze fanno male”.
Relazione sulla violenza sulle donne a cura del Dr Lorenzo Festicini ed dr Filippo Pollifroni.
Presidente Nazionale e Delegato per la Calabria dell’Istituto Nazionale Azzurro
Gli episodi di cronaca nera delle ultime settimane, narrati dai telegiornali, hanno portato alla ribalta una questione drammatica e urgente: la continua vittimizzazione delle donne. In molti, troppi casi, questi episodi di violenza culminano con l’uccisione della donna. Arrestato il presunto colpevole, si scopre che il fattaccio è accaduto ‘per troppo amore’, lui ha ucciso lei perché l’amava, magari tanto. Viene da pensare ‘meno male che le voleva bene, figuriamoci se le voleva male!’.
A parte le considerazioni che ciascuno di noi è libero di fare in relazione a questi terribili episodi di cronaca nera, c’è un punto di partenza dal quale prendere le mosse, per fornire alcune chiavi di lettura del triste fenomeno della violenza sulle donne, per prevenirlo, innanzitutto, e poi per intervenire laddove il peggio è già accaduto.
La questione che con i relatori presenti andremo a delineare va sotto il nome di violenza di genere, nel senso che il genere maschile e quello femminile sono considerati antagonisti. “Violenza di genere” è un’espressione che comprende una vasta gamma di comportamenti. Condotte, attive od omissive, quasi sempre ripetute nel tempo, che uomini molto diversi tra loro per età, condizione sociale, livello di istruzione, nazionalità, religione compiono ai danni delle donne: principalmente, si tratta delle loro compagne, mogli ed ex partner, all’interno di una relazione di intimità o familiare; più rari, i casi in cui questi episodi avvengono fra sconosciuti.
La violenza di genere non consiste solo nell’aggressione fisica di un uomo contro una donna, ma include le vessazioni psicologiche, i ricatti economici, le minacce, le varie forme di violenza sessuale, le persecuzioni. Compiute da un uomo contro una donna in quanto donna. A volte sfocia nella sua forma più estrema, il feminicidio o, in molti casi, uxoricidio nel senso di uccisione della moglie. Si tratta di una violenza diffusa in tutto il mondo, legata alla strutturale disparità sociale, economica e di potere tra uomini e donne, dettata da un atteggiamento culturale prettamente patriarcale.
Sin dall’antichità, la figura della donna ha significato non soltanto una diversità oggettiva, riconducibile al sesso, ma anche una condizione molto radicata che vedeva – e purtroppo continua a vedere – nella donna un essere inferiore e privo di valore. In alcune civiltà mediorientali e della Mesopotamia (Ebla, Ur e così via), il logos, il principio creatore del mondo era identificato nella Madre Terra, una divinità creatrice femminile; la dea Potnia era raffigurata come una donna dalle forme prosperose, quale simbolo di abbondanza e fertilità. Naturalmente questi sono solo due esempi che, nel corso dei secoli, sono stati sopravanzati da modelli sociali e culturali patriarcali. Infatti, presso le civiltà antiche più vicine a noi – ad esempio, quella greca – alla donna era negato ogni ruolo sociale ed ella era sottomessa alla figura maschile; inoltre, aveva un ruolo limitato alla cura della prole. A questo proposito, sia consentito un riferimento alla civiltà dauna, coeva di quella greca e di cui Minervino – Murgantia (secondo le indicazioni ricavabili dalla Tavola Peutingeriana) fu centro urbano molto fiorente tra il VII ed il IV secolo a.C.: la donna dauna aveva un ruolo sociale ben delineato, con compiti e funzioni che trascendevano le occupazioni muliebri classiche sino a giungere – almeno fra i membri dell’èlite culturale – il ruolo di domina accanto al proprio compagno, verosimilmente il princeps – dominus del villaggio. Quando si dice le sorprese della Storia locale! Lo stesso accadeva nella vicina Canusium.
Dalle belle notizie della Storia di casa nostra, torniamo alla c.d. violenza di genere. Le donne hanno sempre ricevuto, in moltissime culture, un doppio trattamento: da un lato, di esclusione, perché ritenute inferiori all’uomo, dall’altro lato, di protezione, assieme ai bambini e agli anziani, perché ritenute il sesso debole. Un punto deve essere chiaro a tutti: l’esistenza della donna è indispensabile ed è intrecciata a quella dell’uomo e, viceversa, la sorte dell’uomo è legata a quella della donna. Tuttavia, questo assunto è stato per secoli disatteso, anzi il modello maschile ha dominato a qualunque livello: religioso, politico, sociale. Un esempio è dato dalla caccia alle streghe, durante la quale le donne che, per sventura, venivano accusate di stregoneria, venivano sottoposte ad atroci torture per confessare i propri peccati, fino ad essere uccise sul rogo. Nel corso dei secoli, si è dunque attestata la supremazia del modello maschile, che per il genere femminile si è tradotto in una asimmetria. Tale asimmetria si è concretizzata in una lunga catena di ingiustizie subite dal sesso femminile, asimmetria riscontrabile trasversalmente in ogni cultura e in ogni continente. Ancora oggi, in una società multiculturale come la nostra, molti gruppi e diverse minoranze etniche restano insensibili alle disuguaglianze fra uomo e donna, anche quando il superamento di queste differenze fra i generi diventa la condizione necessaria per favorire l’integrazione fra i gruppi di migranti e la cultura ospitante. Molti episodi di sangue, avvenuti di recente in Italia, hanno visto come protagonisti ‘gli uomini di casa ’: il genitore o il maggiore dei fratelli o, comunque i membri maschili del nucleo familiare, hanno ucciso la figlia o la sorella – in tanti casi, una giovane donna – solo perché lei, in quanto donna aperta ad una nuova cultura, voleva emanciparsi dal gruppo sociale di appartenenza per accettare un nuovo modello di vita, c.d. occidentale. Il burqa è sicuramente il simbolo più evidente di questa violenza ma non è l’unico: non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo donne giovanissime – in certi contesti culturali si tratta di bambine – vengono sottoposte al tremendo rito delle mutilazioni genitali. Questa pratica culturale, alle nostre latitudini è vietata dalla disposizione del’art. 583[1] bis c.p., sul presupposto che si tratta di atti di mutilazione inutili, atroci e pericolosi per la salute psicofisica della donna, visto che in generale questi interventi vengono effettuati in assenza delle minime condizioni di igiene. I continui fenomeni migratori verso l’Italia portano un carico umano fatto di miseria e di fame ma anche di tradizioni culturali che, per la nostra civiltà, risultano incomprensibili: nelle culture di partenza, queste pratiche rivestono un ruolo importante all’interno del clan di appartenenza e rifiutarsi di sottoporvisi vuol dire essere stigmatizzati ed emarginati dal contesto sociale.
In altri contesti culturali, sempre meno distanti da noi, grazie ai già accennati flussi migratori ma anche alle nuove tecnologie, il ruolo della donna è stato impropriamente rivalorizzato. Senza affrontare compiutamente l’argomento ora, nei contesti islamici ortodossi ed estremisti, alla donna è data la possibilità di divenire una kamikaze, per dirla con un termine usato in modo inesatto. Ognuno dei presenti comprende bene che non c’è nulla di vantaggioso nel farsi esplodere con un carico di dinamite: la verità è che in quei territori, le donne più vulnerabili per vari motivi (ci sono tre tipi di donne kamikaze), vengono vendute dalle famiglie indigenti alle organizzazioni terroristiche e comprate a un prezzo che è circa la metà di quello degli uomini (circa $ 400,00 USA), per essere addestrate in centri militari nel deserto e, una volta pronte, inviate verso gli obiettivi prestabiliti. L’inganno col quale le donne vengono adescate consiste nella possibilità loro data di vendicarsi per i lutti subiti a causa del nemico occidentale o dalla possibilità di contribuire col proprio sacrificio umano alla jadh o, ancora, dalla promessa di una vita ultraterrena fatta di gloria e beatitudine. Senza scendere nel merito delle convinzioni religiose di nessuno, occorre sottolineare come spesso la politica o la religione – componenti essenziali di un dato contesto culturale – incidono pesantemente sulla vita di ognuno, condizionandola, specialmente se donna. Questa è la riprova del fatto che cultura e rispetto verso il sesso femminile non sempre vanno di pari passo.
Circa la relazione fra cultura e società, occorre ricordare che l’attuale società italiana, come molte società ‘civili’, usa una doppia morale, un duplice metro di misura per discernere la condotta maschile da quella femminile. L’uomo può fare certe cose che per una donna sono sconvenienti, se non addirittura vietate! L’esempio più eclatante è fornito dalla doppia morale circa i costumi e le abitudini sessuali di uomini e donne. Se un uomo è sessualmente promiscuo, se cioè ha più di una partner oltre quella ufficiale, è reputato dal contesto sociale un uomo in gamba, uno scaltro, un uomo da cui magari prendere esempio; vi chiedo: e se una donna è sessualmente promiscua, quale trattamento riceve? Se va tutto bene, se la cava con uno stigma che niente e nessuno potrà toglierle. Di sicuro, dagli anni ’50 ad oggi molto è cambiato, dal punto di vista dei costumi e della morale sessuale. Questo esempio, diffusissimo specialmente laddove il senso della famiglia è molto forte, può farci sorridere: ma il sorriso cede il passo alla preoccupazione quando alcuni teorici della Criminologia hanno desunto conclusioni quantomeno discutibili e pericolose, nelle conseguenze. Un vittimologo statunitense, Amir, analizzando negli anni ’50 la precipitazione nel reato di stupro, giunse ad una conclusione, terribile: quando la donna viene stuprata, questo accade perché ella lo ha voluto, perché ha dapprima prestato il proprio consenso all’unione carnale ma poi lo ha ritirato, sottraendosi alle avances dell’uomo; secondo Amir, l’uomo che prosegue nelle avances sino a violentare la malcapitata non fa altro che assecondare il desiderio inconscio della donna di essere violentata. Presupposto della teoria di Amir è la c.d. doppia morale: in base ad essa, un uomo sessualmente promiscuo no è stigmatizzato, in senso negativo – dispregiativo, piuttosto è ritenuto essere un uomo ìin gamba’, un donnaiolo: al contrario, una donna sessualmente promiscua è fatto oggetto di scherno o, quantomeno, è additata agli occhi dei più con epiteti tutt’altro che rispettosi e gratificanti.  In questo contesto, dice Amir, se una donna ha più partner viene giudicata male; se, invece, ella subisce una violenza, allora ella appaga il proprio desiderio di essere sessualmente promiscua, come l’uomo, senza il giudizio negativo. Le conseguenze di tali affermazioni possono essere riassunte nella deresponsabilizzazione dell’autore del reato che, accettando questa impostazione, verrebbe deresponsabilizzato.
Lo stretto legame fra cultura e società ci porta ad analizzare brevemente cosa era previsto, fino al 1981, nel codice penale italiano del 1930, codice tuttora in vigore. I lavori preparatori del codice penale del 1930 hanno restituito un’immagine della donna, conforme all’ideologia dominante in quel periodo, secondo cui la donna era l’’angelo del focolare’ e il suo ruolo coincideva e si esauriva nella conduzione della famiglia quale madre e moglie. La disciplina sull’aborto – diverso dall’interruzione volontaria della gravidanza – ne sottolineava il ruolo di donna. In questo ruolo di ‘angelo del focolare’, la donna era sottomessa all’uomo, il quale, in omaggio alla tradizione romanistica del pater familias, aveva lo ius vitae necisque, cioè il potere di vita e di morte. Qualcuno potrà non essere d’accordo con questa ricostruzione ma sino al 1981 nel nostro ordinamento giuridico esisteva la norma di cui all’art. 587 c.p. secondo la quale ‘Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni [anziché la pena non inferiore ad anni ventuno]. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo’.
Questo la dice lunga sul senso di dignità e di rispetto che si è avuto in Italia, almeno fino all’introduzione della Carta costituzionale – 1948 – che, specialmente nell’interpretazione delle norme penali e del processo penale, ha svolto un ruolo insostituibile di armonizzazione delle vecchie norme al mutato contesto sociale e giuridico.
Nonostante i fermenti culturali degli anni ’70, l’abrogazione di alcune norme del codice penale e tanti passi avanti compiuti fino ad oggi verso una maggiore consapevolezza della donna in quanto persona, ancora molto resta da fare, sul piano della violenza di genere.
Un primo importante passo per ‘modernizzare’ la tutela penale della donna contro le molestie sessuali è stato compiuto con l’emanazione della l. 66/96, che ha riformato la disciplina sui reati sessuali a danno delle donne. Senza approfondirne l’esame, va evidenziato che l’intervento normativo in parola è servito a restituire alla donna abusata una dignità, da troppo tempo dimenticata. Prima della l. 66/96, le norme che punivano le molte forme di violenza sessuale erano comprese nel Titolo IX del Libro II, dedicato ai ‘ Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume’: il Capo Primo oggi è interamente abrogato. Tali previsioni normative oggi sono comprese tra i ‘Delitti contro la libertà personale’ (Sez. II, Capo Terzo, Titolo XII – Dei delitti contro la persona). Prima della riforma del 1996, l’impianto normativo individuava innanzitutto nello Stato il soggetto offeso dalla violenza sessuale, poi la donna: dal ’96 in poi, correttamente, si è voluto tutelare la persona, la donna che ha subito una violenza, perché l’interesse al benessere psico-fisico della donna è stato ritenuto più importante dell’interesse dello Stato all’integrità morale e al buon costume.
Il governo Letta ha varato il decreto legge contro il femminicidio, contenuto purtroppo in una serie di norme sulla sicurezza E’ stato presentato con toni entusiastici come strumento di tutela delle donne che il decreto pensa come “soggetti deboli” e bisognosi di tutela.
Alcune norme contenute nel decreto sono interessanti come la previsione dell’aggravante nei casi di violenze commesse alla presenza dei minori che dovrebbe tutelare maggiormente i bambini nei casi di violenza assistita.
L’obbligo di arresto e l’allontanamento dell’autore di maltrattamenti in casi di flagranza di reato potrebbe essere un altro utile strumento, anche se resta da capire cosa accadrà, una volta che l’autore di violenze sarà scarcerato.
Se oltre a bloccare l’autore di violenze non si aiutano le donne con percorsi mirati a sganciarsi dalla relazione, allontanandole dal pericolo, tutelando i figli, rafforzando le loro scelte offrendo sostegno e percorsi di autonomia, anche economica, che efficacia avranno gli arresti e gli ammonimenti? Non si può pensare di risolvere tutto con il carcere.
In Italia le strutture di accoglienza che mettono le donne, al centro delle relazioni di aiuto, sono poche. Complessivamente ci sono 500 posti letto invece dei 5700 previsti dalle direttive europee e i centri antiviolenza continuano ad essere scarsamente finanziati e molti sono sempre a rischio di chiusura. Non solo. Spesso sono presi di mira da atti intimidatori, come nel caso del centro antiviolenza di Firenze “Artemisia” dato alle fiamme il 20 maggio scorso.
Sono critiche invece le norme che prevedono procedure d’ufficio e l’irrevocabilità della querela: un insieme di interventi che passano sopra la testa delle donne. Il legislatore pare non aver recepito la differenza tra situazioni dove la vittima ha già interrotto la relazione e sta subendo stalking e situazioni dove invece continua a convivere con il maltrattante. L’ammonimento del questore anche su segnalazione di terze parti desta persino preoccupazione. Il momento dello svelamento della violenza è delicato e pericoloso e se l’autore del maltrattamento torna a casa con la vittima esiste un alto rischio di ritorsioni o intimidazioni e minacce. Un rischio che potrebbe essere nutrito dal dubbio che la compagna abbia parlato confidandosi con qualcuno.
Quanto alla irrevocabilità della querela è fondamentale il rafforzamento della determinazione della donna per interrompere situazioni di violenza familiare. Come si può prescindere dalla volontà della donna?
In Italia, come si diceva poco fa, si continua a considerare la violenza contro le donne una questione di ordine pubblico o causa di “allarme sociale” invece che un problema culturale e di tutela della persona vittima. E in Italia non abbiamo ancora un sistema di interventi organici contro la violenza di genere: occorrono interventi organici tra soggetti istituzionali e centri antiviolenza, un buon lavoro di rete e di sostegno alle vittime, interventi di sensibilizzazione nelle scuole e università. Se il problema è culturale, ed è tale, senza alcun dubbio, occorre partire dai luoghi di cultura.
Un altro dei problemi che il decreto non ha mostrato di risolvere è la inadeguata formazione e la mancanza di personale dedicato per i casi di violenza familiare (forze dell’ordine e tribunali) che non permette la capacità di distinguere tra situazioni di conflitto di coppia e di violenza. In Lombardia, i Tribunali hanno complessivamente 1000 denunce di violenza su 1500 in un anno e l’invio di situazioni di violenza alla mediazione familiare con conseguente vittimizzazione secondaria della donna che aveva subito o denunciato violenze.
Il decreto legge contro il femminicidio interviene solo sul piano repressivo che resta un piano di intervento talvolta necessario per bloccare gli autori di violenze ma insufficiente per affrontare il fenomeno in tutta la sua complessità. Indice di tale insufficienza è la mancanza di ogni riferimento alla non trovare alcun riferimento riguardo alla presa in carico degli uomini autori di comportamenti violenti. Da questo punto di vista, è importante l’analisi delle cause del comportamento violento dell’uomo contro la donna: in molti casi, la causa va ricercata nel vissuto personale dell’abusante, nel modello educativo impartitogli o appreso nel corso delle esperienze personali, nella mancanza o scarsa educazione sentimentale.
Infatti, quando si parla di prevenzione della violenza di genere, non sia possibile non occuparci anche degli autori di questa violenza. E’ importantissimo proteggere le vittime e sostenerle in ogni modo, così come è fondamentale punire il reato, ma si tratta di interventi a posteriori, quando la violenza è già stata commessa o reiterata troppe volte. In base all’esperienza dei centri antiviolenza, è emerso che spesso gli uomini che hanno commesso violenze non hanno alcuno spazio di ascolto che possa, in certi casi almeno, essere per loro sufficiente a interrompere quello che tecnicamente viene chiamato “agito violento”. Non è semplice ma è stato osservato come molti uomini si impegnino riuscendo a trovare delle modalità comunicative più funzionali che non implichino l’uso della forza. La differenza la fa semplicemente il volerlo, la motivazione. Sono parecchi gli uomini che riconoscono il problema e chiedono aiuto in proposito. Certamente, non esiste alcuna formula magica: il lavoro da fare insieme è impegnativo e faticoso, ma può dare dei risultati e il maltrattamento può interrompersi.
Molte coppie, anche quando lui ha avuto e/o continua ad avere un comportamento violento, scelgono di rimanere insieme. Ci sono situazioni in cui la donna non se la sente di lasciare il compagno/marito perché ne ha paura, oppure perché non saprebbe come mantenersi economicamente oppure perché è convinta che, lasciandolo, farebbe del male ai loro figli. Ci sono anche situazioni in cui la donna vuole davvero continuare a stare con il proprio uomo, nonostante la pericolosità del vivere in un contesto di violenza domestica. E se lui dovesse essere in grado di chiedere un aiuto e un sostegno, questo aiuto e questo sostegno lo deve trovare. Altrimenti parlare di prevenzione risulta essere un semplice slogan privo di contenuto.
Tanto per avere un’idea di cosa accade in Italia, oggi, vi leggo alcuni dati, a dir poco, preoccupanti.
Nel 2007 erano stimate in quasi 7 milioni le donne italiane tra i 16 e i 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,9% della classe di età considerata). Sono le giovani dai 16 ai 24 anni (16,3%) e dai 25 ai 24 anni (7,9%) a presentare i tassi più alti. Il 3,5% delle donne ha subito violenza sessuale, il 2,7% fisica. Lo 0,3%, pari a 74 mila donne, ha subito stupri o tentati stupri. La violenza domestica ha colpito il 2,4% delle donne, quella al di fuori delle mura domestiche il 3,4%. Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è elevatissimo: nella ricerca criminologica, si parla di numero oscuro, cioè il rapporto fra i crimini commessi e i crimini denunciati: e il motivo è anche evidente, dato che molte donne, per pudore e/o per timore di ulteriori violenze preferiscono non denunciare. Circa il 96% delle donne non ha denunciato le violenze subite da un non partner e il 93% di quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%). È consistente la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite dal partner e 24% per quelle da non partner).
 Spesso accade che le agenzie preposte alla ricezione delle denunce (magistratura, organi di polizia, altre agenzie) non hanno l’attitudine di cogliere la delicatezza del problema – direi del dramma – lasciando le donne che hanno subito la violenza sole con il loro carico di sofferenza e senza alcuna tutela. Il caso paradigmatico è quello della prostituta che denuncia una violenza sessuale:
costei difficilmente verrà creduta e la sua denuncia non verrà presa in considerazione dagli organi preposti, in nome di un pregiudizio che ognuno di voi comprende. Le donne subiscono più forme di violenza. Un terzo delle vittime subisce atti di violenza sia fisica che sessuale. La maggioranza delle vittime ha subito più episodi di violenza. La violenza ripetuta avviene più frequentemente da parte del partner che dal non partner (67,1% contro 52,9%). Tra tutte le violenze fisiche rilevate, è più frequente l’essere spinta, strattonata, afferrata, l’avere avuto storto un braccio o i capelli tirati (56,7%), l’essere minacciata di essere colpita (52,0%), schiaffeggiata, presa a calci, pugni o morsi (36,1%). Segue l’uso o la minaccia di usare pistola o coltelli (8,1%) o il tentativo di strangolamento o soffocamento e ustione (5,3%). Tra tutte le forme di violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, ovvero l’essere stata toccata sessualmente contro la propria volontà (79,5%), l’aver avuto rapporti sessuali non desiderati vissuti come violenza (19,0%), il tentato stupro (14,0%), lo stupro (9,6%) e i rapporti sessuali degradanti ed umilianti (6,1%).
 
I partner sono responsabili della maggioranza degli stupri.Il 21% delle vittime ha subito la violenza sia in famiglia che fuori, il 22,6% solo dal partner, il 56,4% solo da altri uomini non partner. I partner sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate. I partner sono responsabili in misura maggiore anche di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro nonché i rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 69,7% degli stupri, infatti, è opera di partner, il 17,4% di un conoscente. Solo il 6,2% è stato opera di estranei. Il rischio di subire uno stupro piuttosto che un tentativo di stupro è tanto più elevato quanto più è stretta la relazione tra autore e vittima. Gli sconosciuti commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, seguiti da conoscenti, colleghi ed amici. Gli sconosciuti commettono stupri solo nello 0,9% dei casi e tentati stupri nel 3,6% contro, rispettivamente l’11,4% e il 9,1% dei partner.

Sono più colpite da violenza domestica le donne il cui partner è violento anche all’esterno della famiglia. Hanno tassi più alti di violenza le donne che hanno un partner attuale violento fisicamente (35,6% contro 6,5%) o verbalmente (25,7% contro 5,3%) al di fuori della famiglia; che ha atteggiamenti di svalutazione della propria compagna o di non sua considerazione nel quotidiano (il tasso di violenza è del 35,9% contro il 5,7%); che beve al punto di ubriacarsi (18,7% contro il 6,4%) e in particolare che si ubriaca tutti i giorni o quasi (38,6%) e una o più volte a settimana (38,3%); che aveva un padre che picchiava la propria madre (30% contro 6%) o che a sua volta è stato maltrattato dai genitori. La quota di violenti con la propria partner è pari al 30% fra coloro che hanno assistito a violenze nella propria famiglia di origine, al 34,8% fra coloro che l’hanno subita dal padre, al 42,4% tra chi l’ha subita dalla madre e al 6% tra coloro che non hanno subito o assistito a violenze nella famiglia d’origine.
 
Le violenze domestiche sono in maggioranza gravi.Il 34,5% delle donne ha dichiarato che la violenza subita è stata molto grave e il 29,7% abbastanza grave. Il 21,3% delle donne ha avuto la sensazione che la sua vita fosse in pericolo in occasione della violenza subita. Ma solo il 18,2% delle donne considera la violenza subita in famiglia un reato, per il 44% è stato qualcosa di sbagliato e per il 36% solo qualcosa che è accaduto. Anche nel caso di stupro o tentato stupro, solo il 26,5% delle donne lo ha considerato un reato. Il 27,2% delle donne ha subito ferite a seguito della violenza. Ferite, che nel 24,1% dei casi sono state gravi al punto da richiedere il ricorso a cure mediche. Le donne che hanno subito più violenze dai partner, in quasi la metà dei casi hanno sofferto, a seguito dei fatti subiti, di perdita di fiducia e autostima, di sensazione di impotenza (44,9%), disturbi del sonno (41,5%), ansia (37,4%), depressione (35,1%), difficoltà di concentrazione (24,3%), dolori ricorrenti in 3 diverse parti (18,5%), difficoltà a gestire i figli (14,3%), idee di suicidio e autolesionismo (12,3%). La violenza dal non partner è percepita come meno grave di quella da partner. 2 milioni 77 mila donne hanno subito comportamenti persecutori (stalking), che le hanno particolarmente spaventate, dai partner al momento della separazione o dopo che si erano lasciate, il 18,8% del totale. Tra le donne che hanno subito stalking, in particolare il 68,5% dei partner ha cercato insistentemente di parlare con la donna contro la sua volontà, il 61,8% ha chiesto ripetutamente appuntamenti per incontrarla, il 57% l’ha aspettata fuori casa o a scuola o al lavoro, il 55,4% le ha inviato messaggi, telefonate, e-mail, lettere o regali indesiderati, il 40,8% l’ha seguita o spiata e l’11% ha adottato altre strategie. Quasi il 50% delle donne vittime di violenza fisica o sessuale da un partner precedente ha subito anche lo stalking, 937 mila donne. 1 milione 139 mila donne hanno subito, invece, solo lo stalking, ma non violenze fisiche o sessuali.

7 milioni 134 mila donne hanno subito o subiscono violenza psicologica:le forme più diffuse sono l’isolamento o il tentativo di isolamento (46,7%), il controllo (40,7%), la violenza economica (30,7%) e la svalorizzazione (23,8%), seguono le intimidazioni nel 7,8% dei casi.
Il 43,2% delle donne ha subito violenza psicologica dal partner attuale. Di queste, 3 milioni 477 mila l’hanno subita sempre o spesso (il 21,1%). 6 milioni 92 mila donne hanno subito solo violenza psicologica dal partner attuale (il 36,9% delle donne che attualmente vivono in coppia). 1 milione 42 mila donne hanno subito oltre alla violenza psicologica, anche violenza fisica o sessuale, il 90,5% delle vittime di violenza fisica o sessuale 1 milione 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il 6,6% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Gli autori delle violenze sono vari e in maggioranza conosciuti. Solo nel 24,8% la violenza è stata ad opera di uno sconosciuto. Un quarto delle donne ha segnalato un conoscente (24,7%), un altro quarto un parente (23,8%), il 9,7% un amico di famiglia, il 5,3% un amico della donna. Tra i parenti gli autori più frequenti sono stati gli zii. Il silenzio è stato la risposta maggioritaria. Il 53% delle donne ha dichiarato di non aver parlato con nessuno dell’accaduto. 690 mila donne hanno subito violenze ripetute da partner e avevano figli al momento della violenza. Il 62,4% ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più episodi di violenza. Nel 19,6% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,2% a volte, nel 22,6% spesso.
Fonte: Istat, La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia 2011.
Quanto sinora detto, evidenzia l’urgenza di intervenire per prevenire innanzitutto gli episodi che, variamente denominati, vedono le donne quali vittime dirette: che si tratti di stalking, di violenza sessuale o di maltrattamenti in famiglia è la donna la vittima ‘preferita’. Perdonate l’aggettivo: il motivo di una simile scelta viene ancora una volta dalla vittimologia. Uno dei suoi fondatori, tale Von Hentig ha individuato nella donna alcuni caratteri che ne farebbero una vittima ‘ideale’, a causa della sua minore forza fisica e della sua presunta dipendenza dall’uomo. In realtà, Von Hentig parlava quando la società vedeva la donna alle prese con le faccende domestiche, quindi in un contesto sociale profondamente diverso da quello attuale. Lungi dall’affrontare l’impostazione tassonomica di Von Hentig, qui basti osservare come le sue conclusioni circa la vittimizzazione delle donne siano state sconfessate dalla ricerca vittimologica successiva. Per concludere parliamo anche delle violenze subite dagli uomini, da donne autoritarie ,che distruggono famiglie su famiglie con una facilità disarmante.
Lorenzo Festicini ( Presidente Nazionale)
Filippo Pollifroni ( Delegato per la Calabria)
Istituto Nazionale Azzurro